Ogni mezzanotte

Passo di qui, ogni mezzanotte, e non so bene perché. Forse aspetto un fantasma. Molti dicono che non esiste, come sempre accade coi fantasmi, ma io l’aspetto. Ogni mezzanotte, da sei anni. Passo di qui e guardo questa chiesa dalla facciata antica, e ascolto i dodici rintocchi del campanile. Ogni volta mi sembra di vivere il mio sogno, di aspettarlo; per qualche imprevisto del destino non è ancora arrivato.

Davanti a questo portone intarsiato di bassorilievi, osservo il mondo che resta in piedi quando tutto tace. Vedo distrattamente le persone vivere le loro abitudini, ripetere i loro gesti con leggera consapevolezza, appena percepita. In fondo sono qui perché ho smarrito qualcosa, afferrato a volo dal primo episodio della mia nuova vita. E’ stata Luisa a svelarmelo, una specie di matrona che ormai si muove solo due volte dal suo banchetto ciondolante, pieno di carabattole e pacchetti di sigarette: quando il campanile batte i dodici rintocchi.
Sui capelli che un tempo erano corvini e ora sono bagnati da larghe ciocche argentate, mi parve ci fosse scritta un po’ di quella preziosa saggezza popolana, immutabile e senza tempo. Mi parve che sapesse.

Risuonavano i rintocchi di mezzogiorno quando la vidi arrivare. Io attraversavo quella piazza per la prima volta, lei era seguita da uno sciame di figli, parenti e nipoti. Mise su il banchetto, aiutata da due ragazze dispose la merce. Si muoveva lenta, per muovere le gambe quasi ondeggiava come una nave. Le stavano tutti dietro, io la fissavo affascinato.

“Che ti serve?”, mi chiese quando ebbe finito, in tono deciso, quasi brusco.
“Non lo so”, risposi con voce esitante, “l’ho dimenticato”.
Lo sciame era muto, in attesa di indicazioni.
“Tu pure sei venuto per il fantasma?!”
“Quale fantasma?”, replicai, e guardai la luna alta nel cielo. Era mezzogiorno e c’era la luna. Si vedeva, celata dall’azzurrità del cielo.
“Spiegaglielo tu, Ivonne”, disse a una delle ragazze.

Ivonne aveva gli occhi neri, belli, accesi. Era alta e aveva un fisico slanciato.”Devi venire con me”, disse.
Ci sono andato, e non volevo. O meglio, non lo volevo del tutto. Le mi prese per mano e mi porto dall’altro lato della piazza, sulle scale della chiesa.
“Aspettami qui”, disse.
Dopo pochi minuti tornò, aveva con sé una vecchia fotografia. Il ritratto di una donna giovane e bella.
“E’ Luisa molti anni fa, è per lei che torna sempre”.
“Chi torna?”
“L’anima del fantasma”.
I fantasmi non hanno un’anima, sono puro spirito, o magari anima essi stessi. Così ho sempre saputo.
“I fantasmi vivono negli altri”, mi disse Luisa quando andò via, la prima mezzanotte. Da allora seguo sempre il suo ritorno, come fosse l’orologio cosmico della mia esistenza, l’ago della bussola del mio destino. Quando un po’ stanca si trascina lenta fino a scomparire nel labirinto di vicoli che, il giorno dopo, con precisione quasi sacra, la sputerà di nuovo fuori. E’ lì che l’ho perduta, tanti anni fa, falciato da una raffica, in una guerra che non era mia.

 

 

© Gianni Aniello 1997 All rights reserved

Questo racconto fu scritto alla fine del 1997, durante il lavoro che portò alla pubblicazione de “Il racconto breve”, Edizioni del Delfino, 2000. all’epoca l’internet era agli albori eppure la misura e lo stile si sposano oggi perfettamente a una pubblicazione su web. L’idea editoriale e il coordinamento del gruppo di lavoro fu di Giannino Di Stasio, persona generosa e competente che spesso ha avuto idee che hanno precorso i tempi.