Le origini: largo di Palazzo
Piazza del plebiscito, la storia - prima parte
Tra l’inizio del 2011 e la fine del 2012 ho avuto il privilegio di avere una postazione di lavoro che affacciava su piazza del Plebiscito, la piazza più grande di Napoli e una delle più grandi d’Europa. A forza di ammirarne l’imponenza, la monumentalità che trasudava di storia, le frequentazioni spurie, gli eventi che vi si organizzavano, partorii l’idea di creare un sito web che facesse da catalizzatore. Il sito lo realizzai, ma i contributi e le collaborazioni che, forse ingenuamente, mi aspettavo vennero in gran parte a mancare. Così dopo aver vivacchiato nel web per qualche anno, a ottobre 2017 l’ho rottamato. Di quell’esperienza, frutto di un duro lavoro, mi restano alcune cose, come la storia della piazza che scrissi per l’occasione. E’ lunga: tre puntate quasi da sceneggiato televisivo novecentesco, ma forse può risultare ancora utile a qualche studente di scuola superiore e togliere qualche curiosità a quanti si chiedono come sia nata.
Un largo prima del palazzo
Uno spazio accidentato fuori le mura della città, davanti a tre grandi conventi: della Croce e della Trinità, di Santo Spirito e di San Loise. Questa era la “piazza” nel 1503, data che segna la fine del regno aragonese e l’inizio della dominazione spagnola. E se i conventi risalivano al periodo degli Angioini, che li aveva preceduti entrambi, fu con l’avvento degli Spagnoli che qualcosa cominciò a cambiare. Nel 1543 Il viceré Pedro da Toledo fece realizzare, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Manlio, dapprima una strada che fungesse da cerniera con i Quartieri spagnoli, destinati all’alloggio delle truppe, che intitolò a se stesso (via Toledo, per l’appunto), e poi una residenza vicereale “a guisa di maniero fortificato”(1), poi demolita nel 1843 (2). In realtà queste opere fecero parte di un vero e proprio piano urbanistico, cominciato nel 1537 con il nuovo tracciato bastionato delle mura, fatto per unire Castel Sant’Elmo, Castel dell’Ovo e Castelnuovo, capisaldi della difesa urbana, disposti ai vertici di un triangolo.
Con la costruzione del primo palazzo vicereale fu anche abbattuto e ricostruito il convento di Santo Spirito, mentre agli altri due complessi furono tolti parti di terreno utili a una nuova via che portò con sé anche la realizzazione di una spianata: fu così che nacque il “Largo di santo Loise”.
Nel 1600 il viceré e conte di Lemos, Fernàndez Ruiz de Castro, quando Filippo III annuncia la sua visita a Napoli (poi mai realizzata), decide di offrire una degna residenza al sovrano spagnolo. L’architetto regio è Domenico Fontana, quello, per intenderci, che negli anni precedenti, sotto l’ala protettrice del papa Sisto V, a Roma aveva realizzato la scalinata di Trinità dei Monti, il Quirinale e la Cupola di San Pietro: a lui è affidato il progetto per la costruzione del nuovo palazzo vicereale. Fontana non delude le aspettative. Abbatte il torrione occidentale e allinea la facciata principale – il lungo porticato del nuovo edificio – al vecchio palazzo, sfruttandone lo spazio dei giardini e lasciando che l’altro lato sia rivolto al mare. Grazie all’opera del Fontana, da quel momento il “Largo di santo Loise” diventerà “Largo di Palazzo”.
Napoli inizia a guardare da un’altra parte
Con i suoi 169 metri di lunghezza e le sue 19 arcate il nuovo palazzo reale apre una prospettiva urbana inedita. Perché ammicca alla collina di Pizzofalcone, affaccia sull’arsenale e sul porto, simboleggia il nuovo polo del potere vicereale e il primo nucleo della città ad Ovest. Rappresenta quello che oggi verrebbe chiamato un grande attrattore: è “l’edificio cittadino più illustrato, nelle guide, nei dipinti, e nelle raccolte di incisioni”, il “polo decisionale e centro della vita cortigiana” (3), anche a dispetto del fatto che gran parte della nobiltà continui ad abitare in centro. Diventa il luogo davanti a cui si svolgono le manifestazioni pubbliche.
In un certo senso, però, l’opera viene lasciata a metà. A lungo gli abbellimenti di Palazzo vengono privilegiati rispetto all’arredo di uno spazio esterno che, dato lo stato dei luoghi, non riesce a darsi una compiutezza architettonica. Non mancano peraltro i tentativi di dare al Largo di Palazzo una aspetto da piazza, con soluzioni accattivanti quanto estemporanee. Sul lato Sud, quello che maggiormente soffre di un dislivello di quota, vengono deposte due opere, quasi come a voler formare una sorta di “quinta”: la fontana del Gigante, opera di Pietro Bernini e Michelangelo Naccherino ( 1607), oggi alloggiata sul lungomare di Santa Lucia, di fronte all’Hotel Excelsior, e il “Gigante di Palazzo”, la grande statua con il busto di Giove, recuperata a Pozzuoli (1670).
Dagli ordini monastici ai Quartieri spagnoli
Restavano più defilati via Toledo e i Quartieri spagnoli, dove le truppe del dominatore – nell’impossibilità di emulare gli alti funzionari e ufficiali vicereali che, a caccia di titoli e di fortuna, non di rado convolavano a nozze con nobildonne partenopee – davano vita a una serie di vizi che ancor oggi contraddistinguono – a torto o ragione – la fama di quei luoghi: volgarità, superstizione religiosa, millanteria, rapine, vendette. Non era, quello spagnolo, un vice-regno illuminato. Al contrario, Napoli per due secoli conobbe un impoverimento morale e materiale: pressione fiscale alle stelle, opere d’arte trafugate, angherie e inganni dispensati al posto del pane. La nobiltà partenopea si lasciò cadere in un vortice di competizioni furibonde, il cui premio, per chi ne usciva vincitore, consisteva nel mettersi a servizio degli interessi spagnoli, e non molto meglio fece la borghesia, sempre pronta a eseguire le strozzanti disposizioni amministrative vicereali. Al popolo dei lazzaroni non restarono che – oltre la festa, un po’ di farina e la forca – ozi e rivolte, di cui celebre quella di Masaniello (1647), che culminò nella presa popolare del quarto castello partenopeo, quello del Carmine, e la Camorra, che voleva essere in origine una società segreta con fini di mutua assistenza.
Largo di Palazzo, ovvero non si facevano tarantelle
Largo di Palazzo è lo spazio pubblico più grande della città. Una caratteristica che fa sì che venga scelto per parate, eventi popolari, feste, cavalcate, celebrazioni, fiere e così via. Non di rado vengono allestite “macchine da festa”, con il contributo di artisti e artigiani. Per gli eventi legati alla famiglia reale vengono chiamati a intervenire i migliori architetti. A volte campeggia un albero della cuccagna, promessa di abbondanza che sa unire l’ordine sacro, la chiesa, con la fame profana, il popolo, sotto l’occhio vigile del potere politico. E’ un divertimento barbaro, a cui non di rado la nobiltà assiste dall’alto dei balconi di palazzo: a un dato segnale le guardie lasciano campo libero a una folla assatanata che della cornucopia di bestiame, vivande varie e vino può portare via tutto ciò che riesce ad afferrare. Va da sé che si finisce con fare a pezzi il bestiame ancora vivo e con il dare luogo a veri e propri combattimenti. Mancano invece testimonianze di eventi fatti con musiche e danze. Il putipù, quella sorta di tamburo a frizione indissolubilmente legato alla tradizione popolare, se mai ha attraversato la piazza, lo ha fatto senza lasciare traccia di sé. Per due secoli il largo di palazzo resta caotico e immutato. Al contrario, l’edificio da cui prende il nome subisce diverse ristrutturazioni. Nel ’700 Vanvitelli per scongiurare il rischio di cedimento dei pilastri chiude le arcate in alternanza, dando vita a una successione di arcate aperte e nicchie murate: il palazzo reale non è più aperto alla città. Subirà ulteriori modifiche dopo l’incendio del 1837, quando Gaetano Genovese lo rimaneggia, suddividendolo in tre grandi spazi, con tre facciate principali e tre cortili (d’Onore, delle Carrozze e del Belvedere) restituendo in piccola parte l’antica apertura. Intanto nel 1775 Ferdinando di Borbone fa abbattere il monastero di Santa Croce e al suo posto fa costruire il palazzo dei Ministri del Regno, poi divenuto Palazzo Acton e infine palazzo del Principe di Salerno, che costituisce la prima vera opera di sistemazione del Largo. Nel 1888, per volere diUmberto I di Savoia, le nicchie murate vengono riempite con le statue dei Re di Napoli (i capostipiti delle otto dinastie che si sono succedute al trono della città) (4).
In quel frangente…
All’accentramento politico, sociale e amministrativo degli spagnoli corrisponde un tumultuoso incremento della popolazione: i baroni, che vengono fatti confluire nella capitale per essere controllati meglio dai viceré, portano un seguito di servitori impressionante. E non tutti i nobili, che si contano in gran numero, hanno rendite tali da offrire vitto e alloggio, o una paga dignitosa, ai propri servitori (spesso nemmeno la volontà: “Tutta la loro rendita sparisce in esteriorità”, scrisse di loro un viaggiatore inglese del XVII secolo). Ne conseguono un fermento nell’edilizia abitativa che si accompagna a un’edilizia nobiliare e religiosa di altissimo livello. Il clero, dopo il concilio di Trento, è impaziente di disseminare di luoghi sacri, simbolo del potere religioso, gli stati che non hanno ceduto all’eresia protestante. Così mentre gli edifici destinati ad abitazioni cominciano a crescere in altezza (per sfuggire al divieto di edificare fuori le mura), è l’architettura religiosa e nobiliare che tocca vette stilistiche di indubbia bellezza, portando con sé una committenza per le arti e i mestieri che lascerà non pochi capolavori. E’ in questo periodo che vengono costruite per esempio le chiese del Gesù Vecchio e del Gesù Nuovo, di Santa Maria della Sanità‘, e la basilica di San Paolo Maggiore, elevata sul tempio romano dedicato ai Dioscuri. Ed è anche il periodo in cui a Napoli operano grandi pittori come Caravaggio, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Mattia Preti, Massimo Stazione, Salvator Rosa. Quasi tutti gli architetti, gli scultori e gli artisti sono settentrionali. Eppure vengono trascinati nell’espressione delle loro opere dall’incanto straordinario di questa terra, dalla meraviglia e dalla sorpresa dei suoi scenari e dei suoi colori, dando vita a un movimento profondamente originale: il barocco napoletano.
Note e sito-bibliografia
(1), (3) Teresa Colletta, Napoli. Piazza Plebiscito, 2005
(2) Il palazzo sorgeva nel punto contrassegnato con il numero 41 nella pianta di Duperac- Lafrery. E’ peraltro rappresentato in alcuni dipinti riportati nella seconda parte.
(4) Da via Toledo verso Santa Lucia troviamo nell’ordine: Ruggiero il Normanno, Federico II di Svevia, Carlo D’Angio, Alfonso V d\’Aragona, Carlo V d\’Asburgo, Carlo III di Spagna, Gioacchino Murat e Vittorio Emanuele II.
www.treccani.it
www.blunapoli.it
Pietro Colletta, Storia di Napoli, 1888
Harold Acton, I Borboni di Napoli: 1734-1825 – Giunti Editore, 1985
Camillo Albanese, Cronache di una rivoluzione: Napoli 1799 – FrancoAngeli, 1998
Gigi Di Fiore, Controstoria dell’unità d’Italia – BUR, 2010
Patrick Nuttgens, Storia dell’architettura, Pearson Italia S.p.a., 2001