Il foro Murat e il vento illuminista
La storia di Piazza del Plebiscito, seconda parte
E’ con l’arrivo del governo napoleonico (1805-1815) che nasce l’idea di una grande piazza. I Borbone, dal 1734 a capo del Regno divenuto indipendente, hanno segnato profondamente la città, sia con una serie di riforme amministrative, sia per la spiccata sensibilità culturale di Carlo (che da Infante di Spagna, a capo di un esercito prese il regno agli Austriaci). Si devono essenzialmente a lui(1) il teatro San Carlo, la Biblioteca Nazionale, la collezione Farnese portata da Parma, le reggie di Capodimonte, Portici e Caserta, il Real Albergo dei Poveri, Piazza Dante, i primi scavi a Ercolano e Pompei… Ci vogliono l’indolenza di suo figlio, Ferdinando IV (il Re Nasone) e il tenace odio per la Rivoluzione Francese di sua moglie, Maria Carolina d’Austria (sorella della regina Maria Antonietta, ghigliottinata a Parigi) per consegnare ai francesi, troppo superiori militarmente, una città del tutto priva di classe dirigente, vista anche la feroce rappresaglia che si abbatté sui giacobini dopo il triste esito della Repubblica del 1799.
La filosofia illuminista rompe lo schema barocco, dove il prestigio del signore costituisce il principio ordinatore dello Stato, e lo sostituisce con il contratto sociale. Anche l’architettura deve uniformarsi alle nuove concezioni: perché sia di valore deve essere razionale e laica, in altre parole semplice, e funzionale ai criteri di utilità tipicamente borghesi. Da qui l’idea di realizzare una grande piazza pubblica nel luogo maggiormente rappresentativo della città. A sostenere l’idea è lo stesso re di Napoli, Gioacchino Murat, che nel 1809 emette un bando di concorso per per il progetto della Grande piazza o Foro Murat. A vincere il concorso è l’architetto Leopoldo Laperuta. Il progetto si basa su una piazza a “doppio fondale”: di fronte a Palazzo Reale sorgerà un “emiciclo porticato dalla forma semicircolare”(2) il cui ingresso sarà perfettamente in asse con quello della reggia. I lati saranno chiusi da due edifici gemelli, anch’essi allineati su uno stesso asse, che intersecherà perpendicolarmente l’asse fra il palazzo e l’emiciclo. E’ così che sorge il palazzo del Ministero degli esteri, perfettamente speculare a Palazzo Salerno, i cui lavori cominciano nel 1812, favoriti anche da alcuni strumenti urbanistici tipicamente illuministi, come il Decreto per la soppressione dei monasteri che porta all’abbattimento dei due complessi conventuali rimanenti: Santo Spirito e San Loise.
La restaurazione scende in Piazza
Nel progetto della Grande e Pubblica Piazza è previsto che l’emiciclo arrivi fin sotto la collina di Pizzofalcone, che sia luogo coperto per le pubbliche adunanze e allo stesso tempo ospite di esposizioni di opere dell’industria, delle arti e dei mestieri. Sul diametro che unisce i due estremi del semicircolo, nel punto di intersezione con l’asse perpendicolare della “Piazza in prospetto di Palazzo Reale”(3), verrà posta una statua di Napoleone. L’idea cade a Waterloo con l’imperatore, il 18 giugno 1815. I lavori diretti da Laperuta sono in fase abbastanza avanzata. Quasi finito il palazzo del Ministero degli esteri, già abbattuti gli edifici religiosi e le abitazioni, soltanto cominciato il colonnato semicircolare del Gran Foro Gioacchino. Nel settembre dello stesso anno, il redivivo Re Nasone – che intanto ha assunto il titolo di Ferdinando I Re delle Due Sicilie – prima sospende i lavori e poi opera un radicale cambio di programma emettendo un nuovo bando: in ballo c’è la realizzazione del Foro Ferdinandeo e l’edificazione – ex voto – di una chiesa dedicata a San Francesco di Paola. Finisce così la vocazione di grande spazio pubblico della piazza. Del progetto francese restano l’emiciclo, le dimensioni (dai circa 9.000 metri quadri del Largo di Palazzo i 23.000 della Piazza), l’idea del “doppio fondale” e i grandi corridoi di passaggio laterali, sia per conservare le vie che risalivano verso Pizzofalcone, sia per assicurare una facile viabilità al Palazzo nei due sensi di Santa Lucia e Toledo. Resta, altresì, l’idea della statua.
Due statue al posto di una
Antonio Canova era fra i ritrattisti di Napoleone, incarico che lo scultore neoclassico peraltro non aveva mai ufficialmente accettato. L’idea di affidare a lui una statua equestre di Napoleone era stata di Giuseppe Bonaparte. Ferdinando I, re delle Due Sicilie, coglie al volo l’occasione e decide di trasformare la commessa: a essere raffigurato non sarà più l’imperatore francese, ma suo padre, Carlo III di Spagna. E per festeggiare il suo ritorno al trono, si lascia convincere da Canova ad aggiungerne un’altra identica: la sua. L’artista veneto però morirà nel 1822 e non riuscirà a completare il gruppo equestre: la figura di Ferdinando infatti sarà ultimata da Antonio Calì. Nel luglio del 1829 i due monumenti, in bronzo, vennero posti simmetricamente ai piedi della linea-diametro che unisce gli estremi dell’emiciclo, mentre sotto la direzione dell’architetto ticinese Pietro Bianchi si portava a compimento la basilica di San Francesco di Paola, ultimata nel 1846.
Fu così che le figure dei Borbone divennero i primi monumenti a dominare la piazza. Un primato arricchito da una coincidenza singolare. Quando Umberto I di Savoia ordinò che l’arcate chiuse di Palazzo Reale fossero addobbate con le statue dei Re di Napoli, Carlo di Borbone si ritrovò a essere rappresentato due volte. La prima, in bronzo, mentre cavalca in abiti da guerriero romano e la seconda, in signorile posa, in marmo.
Tu quoque, San Francesco (di Paola)
Ferdinando I era conosciuto anche con il nome di Re Lazzarone, per le sue frequentazioni popolane e il suo linguaggio da trivio. Amava la tranquillità- e la caccia – sopra ogni altra cosa, al punto di lasciare le volte che poteva il governo del regno alla moglie Maria Carolina e al segretario di stato (che ne divenne l’amante), John Acton. Napoletano fin nelle viscere, durante l’esilio a Palermo non smise mai di anelare a un ritorno alla vita partenopea. Come un vero lazzaro aveva un’ardente fede religiosa e quando seppe che Murat aveva fatto abbattere la chiesa di San Francesco di Paola fece un voto solenne: se mai fosse tornato Re di Napoli, l’avrebbe fatta ricostruire più grande e bella di prima. Fu al santo calabrese – che, sia detto per inciso, circa due secoli e mezzo prima in quella piazza aveva fondato il convento di San Loise e aveva avuto più di un contrasto con la corte aragonese per la sua fermezza nel difendere i ceti più umili – che rivolse le più accorate preghiere.
Il bando che emanò in sostituzione del progetto di Murat, pur conservando l’organizzazione degli spazi e le linee essenziali precedenti, contemplava innanzitutto l’inserimento al centro dell’esedra della chiesa dedicata al suo santo protettore, in sostituzione dell’edificio per le pubbliche adunanze. Fu così che la forma complessiva delle 44 colonne in stile ionico dell’emiciclo divenne accessoria. Fu resa più bassa rispetto al pronao che conduce alla basilica. Si diede risalto alla facciata di 8 colonne in stile dorico (a cui se ne aggiungono 4 all’interno) e alla cupola retrostante. Sul timpano triangolare eretto sulle colonne, si innalzarono tre statue: quella della Religione al centro, quella di San Ferdinando di Castiglia a sinistra e quelle di San Francesco di Paola a destra. Ispirata al modello Pantheon romano, la basilica è a pianta centrale con due cappelle laterali ed è coronata dalla cupola, lunga 34 metri di diametro e alta 54.
Ieri come oggi
Autore e curatore dell’intero progetto fu, come già accennato, l’architetto Pietro Bianchi, il quale per accontentare il re operò un’altra – all’apparenza minima, ma decisiva – modifica: nel colonnato furono previsti spazi per le botteghe, ma nessuna via restò aperta verso il quartiere residenziale e la collina di Pizzofalcone – al contrario di quello che prevedeva il progetto Laperula-De Simone -, isolando di fatto la grande piazza e indirizzandola verso una funzione prettamente celebrativa.
Un obiettivo peraltro pienamente centrato. Come era accaduto per il Largo di Palazzo la nuova piazza Ferdinandea o di San Francesco di Paola fu solennemente inaugurata ed “ebbe grande rilievo in città come è dimostrato dalle numerose illustrazioni incise e dipinte ad iniziare dalla posa della prima pietra alla sua definizione formale conclusiva in stampe, incisioni e fotografie, più volte pubblicate” (4). E’ l’aspetto che ha la piazza ancor oggi, se si esclude qualche piccola grande differenza dovuta al decoro e all’arredo urbano.
Note e bibliografia
(1) Secondo altri, invece, l ‘opera riformatrice fu dovuta all’azione del primo ministro Bernardo Tanucci, che fu poi sostituito per volere di Maria Carolina d’Austria. Il suo posto fu preso da John Acton.
(2),(3),(4) Teresa Colletta, Napoli. Piazza Plebiscito, 2005
Pietro Colletta, Storia di Napoli, 1888
Harold Acton, I Borboni di Napoli: 1734-1825 – Giunti Editore, 1985
Camillo Albanese, Cronache di una rivoluzione: Napoli 1799 – FrancoAngeli, 1998
Gigi Di Fiore, Controstoria dell’unità d’Italia – BUR, 2010
Patrick Nuttgens, Storia dell’architettura, Pearson Italia S.p.a., 2001