Rocco Truncellito, il primo tweet della Storia

racconto su personaggi e fatti realmente esistiti e accaduti

Alcuni di voi questa storia la conoscono. Perché l’hanno vissuta in prima persona. Altri è come se l’avessero fatto: l’hanno sentita raccontare troppe volte, e alla fine hanno sognato di essere su quel campo in quel preciso istante. Quale?
Quello in cui Rocco Truncellito inventò il primo tweet. O forse era il primo hashtag dell’era Internet:
#c’aggiechiavat’apurpetta!1

O forse tutti e due.

Era il 1987. Marzo, credo, ma giuro che la prossima volta vi porto la data precisa.
La nostra Accademica viaggiava solitaria in testa alla classifica del girone A del torneo universitario di calcio.

Il nome l’avevano scelto in due. Umberto Cuomo, centometrista in affanno, che di quella squadra aveva voluto il numero 9 sulle spalle, e l’aveva avuto, per mancanza di candidati, ma anche perché prima che si mettesse a ingrassare nei pranzi domenicali dalla suocera aveva giocato centravanti, e Vittorio Mazzola, mezzofondista con la passione per le marenne, le famose merende preparate dalle amorevoli mani materne, che a dispetto dei valori nutritivi iperbolici estraeva dallo zaino con la concentrazione di un incantatore di serpenti. Vittorio si era trasformato da terzino in stopper perché lui e Umberto, compaesani di Marano di Napoli, quando entravano in città erano inseparabili, e si sentivano l’uno il contraltare dell’altro. Se uno voleva segnare gol, l’altro si arrangiava a segnare le gambe dei centravanti avversari con dei virili commenti di benvenuto, e viceversa. Così pure all’Università: se uno voleva studiare, l’altro sognava l’allenamento. Sempre.

Quel nome era un errore, ma tutti facevano finta di non saperlo. Con il pallone tra i piedi pochi di noi non erano imbarazzanti e di accademico non avevamo nulla. Alcuni addirittura esibivano con infantile entusiasmo la propria goffaggine, felici di rincorrere sfere di cuoio saltellanti. Riuscivamo a dare l’impressione, a volte, che il pallone, entrato nel nostro raggio di azione, sfidasse le leggi della fisica fino a diventare ovale come quello da rugby. Il nostro assetto tattico si era poi fermato agli anni ’50 e all’utilitarismo esistenzialista di Helenio Herrera. Il Catenaccio era il nostro Dio, tutto il resto erano invenzioni delle bestie di Satana.

Però i risultati ci davano stranamente ragione. Eravamo riusciti a erigere una diga davanti alla difesa con una paio di mastini napoletani, uno dei quali, Raffaele Zica, sembrava aver rubato il nome a un testimone di giustizia, e in porta il nostro Mister, Giovanni Moscarella, allenatore-giocatore, riusciva a esaltarsi ogni volta che la superiore tecnica avversaria bucava la difesa. La cosa peraltro avveniva di rado: difendevamo in dieci, l’unico dispensato era Sandro Iazzetta, talentuosa mezzapunta che per far parte dell’organico aveva dovuto spergiurare che per lui l’Accademica era una questione di vita o di morte. Il canovaccio perciò era diventato questo: le squadre avversarie ci vedevano calcisticamente impacciati, cominciavano ad attaccare, si aprivano, qualcuno di noi si inventava un passaggio in diagonale per Sandro, che saltava uno o due difensori, e poi o forniva un assist a cui era difficile dire di no, o, in assenza di compagni nelle vicinanze, segnava direttamente.

Quella volta però contro l’Afasia , Sandro non c’era. L’Afasia2, la squadra degli studenti fuorisede greci, che nel rettangolo verde ritrovava la lingua perduta, giocando un calcio veloce e terribile. Che aveva due attaccanti la cui la cifra tecnica superava di gran lunga la somma di quella dell’intera nostra squadra, panchina inclusa. Anche Michele Pinto, il dirigente del CUS organizzatore del torneo l’aveva preconizzato, con quel malizioso accento calabro: “Mo’ v’aspetta l’Afasia…”. Voleva dire: addio al primato…

Fu così che ci presentammo alla partita. Consapevoli che qualcosa sarebbe potuto cambiare per sempre. Che, se non fossimo stati attenti, avremmo perso non solo partita e primato, ma anche il rispetto e quel pizzico di considerazione che ci eravamo conquistati con quei risultati a sorpresa. E il rispetto per noi contava, a cominciare da quello del professor Milone, al secolo Ettore, il nostro leggendario allenatore di atletica, che seppure non ci avesse mai risparmiato, fino a quel giorno, la sua tagliente ironia, sotto sotto era orgoglioso del lavoro svolto. Il segreto era tutto lì, correvamo sempre almeno il doppio degli avversari e il merito era indubbiamente suo.

Quando cominciò la partita, capimmo subito che la situazione era molto più complicata del solito. Assistevamo impotenti al tripudio amoroso tra il nostro oggetto del desiderio, la palla, e i piedi dei giocatori greci, che sembravano trattarla come fanno i tangheiri con le donne con cui ballano, dominandola senza mai esitare, mentre lasciavano a noi la loro rebetiko, la danza dell’ubriaco, tutta solitudine e acrobazie. Forse volevano imporci una sorta di regola non scritta: per tutta la durata della gara, nessuno di noi avrebbe avuto il privilegio di toccare la palla nella metà di campo in cui era collocata la loro porta. La maledizione di Orfeo ed Euridice, al confronto, sembrava roba da ragazzini. Eppure non mollammo.

Ci servimmo di tutto per non capitolare: doppie e triple marcature, tackle provvidenziali, parate spettacolari, scatti da quattrocentisti, trance agonistica, spazzate lunghe dalla nostra area fino all’apocalisse e dove non arrivammo con i mezzi leciti arrivammo con i falli. Soprattutto Vittorio (Mazzola), sembrò non credere a tanta manna dal cielo, e le giocate di alto livello del 10 avversario le considerò un invito sistematico a entrargli nelle gambe, in maniera altrettanto elegante ma molto più perentoria. Alla fine del primo tempo fu comunque zero a zero.

Non mollammo neppure a inizio ripresa, quando un intervento tanto avido di risoluzioni definitive quanto inesorabile da parte di Vittorio, sempre sugli arti inferiori e sempre sul numero 10 avversario, gli costò la seconda ammonizione e la conseguente espulsione. A quel punto il mister decise: fuori il nostro numero 9 e compaesano di Vittorio, Umberto Cuomo, dentro Lino Granato. Uno stopper per una punta. O forse più banalmente fu una punizione di Napoli capitale nei confronti di quel paese che ci aveva messo ulteriormente in difficoltà.

Si fece ancora più dura. Io ricordo che giocavo libero, e quando, di rado, mi capitava di recuperare il pallone e di portarlo qualche metro in avanti, fuori dall’area di rigore, il pensiero di far respirare la squadra se ne tornava sconfortato nel luogo imperscrutabile in cui era nato. Davanti avevo soltanto maglie avversarie fino a centrocampo, e poi il vuoto, e – a differenza del primo tempo – neppure la sagoma smarrita di Umberto Cuomo, con la sua 9 color arancione con le spalle bianche, che ciondolava tra lo stopper e il libero avversari, mentre pareva chiedere, alzando gli occhi al cielo, a qualche santo maranese di sconfiggere quelle divinità elleniche pagane.

Ma non mollammo. Non mollammo perché sapevamo che se avessimo preso un solo gol, dopo sarebbe stato un massacro, perché continuare a difendere non avrebbe avuto senso e con gli spazi più larghi i greci ci avrebbero fatto tanti gol che ci sarebbe voluto il triplo dei taccuini dell’arbitro o addirittura il commodore 1283 per ricordarli tutti. E per non mollare cominciammo a fare l’unica cosa che ci restava una volta recuperato per qualche frangente il pallone: non sapendo a chi passarlo, lo tiravamo in alto, a campanile, in modo da dare il tempo ai compagni di risalire almeno un poco e poi giocarcela sulla corsa e sul fiato. Fu in una di queste occasioni che Valerio Nigriello, il nostro capitano, si ricordò che giocava ala e fece la cosa che ogni ala dovrebbe fare in queste occasioni: prendere la palla e trascinarla in avanti insieme all’avversario il più a lungo possibile. Lo fece talmente bene che arrivò al limite dell’area avversaria e a quel punto il terzino non ebbe scampo, dovette stenderlo.

La punizione era un paio di metri più avanti del vertice sinistro dell’area di rigore. Due o tre di noi si fiondarono sul pallone, ma Rocco Truncellito con la sua placida fermezza e con la sua voce squillante ripeté deciso: “jate, jate. Jate tutti quanti dint’all’area!”4 . Io credo che lo disse perché il suo orgoglio voleva tirarci via dall’infausta profezia di Michele Pinto: volle rispondergli da calabro a calabro. E noi obbedimmo. Quando prese la rincorsa, e poi tirò, venne fuori il tiro più lungo, e teso, e diagonale, della storia del calcio. Uno dei tiri più velenosi che siano mai stati concepiti, una diavoleria con il radiocomando, il pallone andò a infilarsi nell’angolo alto beffando il portiere, nessuno di noi riusciva a crederci, era il primo tiro in porta, ricordo – almeno così è scritto nella mia memoria – che fui il primo ad andare ad abbracciare Truncellito, ridevo come un idiota, perché non sembrava possibile una beffa del genere, e lui orgoglioso cinguettava “c’aggie chiavata a’purpetta!!!”. Ecco, Rocco Truncellito ha inventato il primo Tweet della storia.
Che ci crediate oppure no.

[1] Gliel’ho infilata, la polpetta!
[2] Disturbo del linguaggio che consiste nella perdita della capacità di esprimere o di comprendere le parole
[3] modello di computer della CBM commercializzato nel gennaio del 1985
[4] Andate, andate. Andate tutti in area!

© Gianni Aniello 2015 All rights reserved

I protagonisti e i fatti di questa storia, non solo sono realmente esistiti e accaduti, ma continuano a esistere ed accadere.
Fila in alto:
Lino Granato, quarto da sinistra. Umberto Cuomo, quinto da sinistra. Sandro Iazzetta, sesto da sinistra. 
Valerio Nigriello: ottavo da sinistra Giovanni Moscarella: nono da sinistra
Fila in basso:
Gianni Aniello, cioè io, autore di questo racconto, primo da sinistra. Rocco Truncellito, secondo da sinistra. Vittorio Mazzola, quarto da sinistra. Raffaele Zica, ultimo da sinistra.

Ps questa foto è la dimostrazione che documentare e narrare sono due cose molto diverse.

Pps Peraltro Umberto e Vittorio si confermano uno il contraltare dell’altro: il primo in piedi, il secondo in ginocchio, ma sullo stesso asse 😉