La quattro D di Desiree Dante

racconto in tre atti e due video

1. Le D

Il costume lo aveva trovato a Milano, in un garage del circuito underground, trasformato in casa della moda. Era capitata lì durante uno dei suoi giri. Le era piaciuto dal primo istante. Quando la ragazza che glielo mostrava le aveva detto il nome, aveva capito perché: Dark Diamond.
Accanto a Desiree Dante formava una bella sequenza di iniziali: quattro D di fila. Perfetto per il suo spettacolo.
Lo infilò e vide che le finte pietre di diamante sul corpetto nero facevano risaltare il suo corpo snello e muscoloso. Avrebbe fatto colpo, ne era certa.

Sentì la voce dello speaker accompagnare il suo movimento sinuoso.
Desiree Dante in…

Scintillii e passi aumentarono di grandezza fino a incontrarsi nello specchio.

Daaaark Diamond!

Teneva a quella perseveranza di D, era complice della sua idea fissa: cambiare aspetto conservando una parte di sé. Inebriava il pubblico, senza scaldarlo troppo.
Provò a usare solo parole italiane, come le raccomandava sua madre.

Desiree Dante in…
Diamanteee Scurooooo!

Non suonava allo stesso modo.
All’anagrafe era Daniela Dante. Suo padre era caduto sul nome, perché il cognome funzionava benissimo. Se lo immaginò, emozionato, mentre compilava il modulo negli uffici comunali. Sospettava da tempo come era andata. Era inciampato nel solito errore paterno, aveva voluto essere protettivo con la figlia femmina a partire dalla prima cosa che le aveva dato insieme alla vita, il nome. E aveva fallito.
La D era stata la prima figura che aveva disegnato quando aveva cominciato la pole dance.
Aveva quattordici anni e aveva capito subito che quella strada l’avrebbe portata lontano. Lontano da quel palazzone di otto piani dove abitava con madre e fratello, da quel quartiere di periferia dove l’ordinario lottava con l’esistenza.
La palestra di pugilato, l’edicola, la vecchia scuola, la piscina comunale, il dopolavoro dei pensionati, i giardinetti con il chiosco, il carretto della frutta che compariva la domenica e, soprattutto, quella lunga rampa che finiva sulla sopraelevata.

La rampa e la sopraelevata erano apparse più o meno quando aveva cominciato a ballare, per cancellare il tramonto sulla linea dell’orizzonte. Si erano piazzati là, con la lunga fila di piloni e trapezi di cemento a sorreggere i giunti ricoperti di catrame, proprio all’altezza del terzo piano, dove abitavano, e proprio sul lato dove affacciava il loro unico balcone. Quelli più in alto, o più in basso, avevano in qualche modo conservato la prospettiva che finiva sulle colline verdi, dietro le quali facevano capolino in lontananza le vette azzurre delle montagne. A loro era toccata la sagoma delle automobili che correvano in un senso e nell’altro, e quel rumore di accelerazioni roboanti mescolato al fruscio insistente degli pneumatici che accarezzavano l’asfalto. Al crepuscolo quel panorama diventava una mezza apocalisse. Il sole si nascondeva dietro il viadotto, lanciando raggi di luce rossa che ammaliavano lo sguardo e oscuravano tutto il resto. Rimanevano le figure delle auto, vorticose formiche automatiche a cavallo di quel chiaroscuro.

Da allora la cucina e il balcone erano diventati posti tristi, anche perché suo padre se ne era andato poco dopo.
Eppure lei aveva sempre pensato che la rampa presto o tardi le avrebbe regalato dei giorni meravigliosi. Forse perché una volta imboccata in pochi minuti potevi arrivare in qualunque punto della città. E poi mentre eri su, in groppa al viadotto, ti restituiva il panorama che aveva tolto alla cucina. Lo ammirava quando usciva la sera in macchina con i suoi compagni, che erano suo fratello Giorgio, di quattro anni più grande e ormai quasi ex dj di grido, e il suo amico Bob. Negli ultimi tempi Giorgio aveva lasciato cadere il suo naso su strisce di polvere bianca sempre più spesso. Bob, che di anni ne aveva quasi trenta e gestiva locali notturni, gli stava vicino per impedire che si mettesse nei guai e che facesse altri debiti. Suo fratello gli doveva una grossa somma, ma la cosa non sembrava preoccuparlo, forse perché contava di recuperarla rimettendolo in sesto, o forse perché gli era affezionato. Per anni Giorgio era stato la sua gallina dalle uova d’oro.

Tutti e tre insieme funzionavano bene. La sera prima erano andati al cinema. Sul viadotto Daniela aveva visto le colline appena illuminate da una mezzaluna e le luci della città che le sorridevano davanti. E per un attimo le era parso che attraversare quel cavalcavia fosse come stare in un drive-in.
Bob le piaceva, ma aveva capito che lui la considerava troppo piccola. Era diventata maggiorenne da quattro mesi, anche se pochi badavano all’età: aveva dietro una miriade di ragazzi e spesso anche di uomini. Il lavoro che faceva le catapultava addosso gli occhi di tutti, eppure lei aveva avuto un solo ragazzo, Luìs il sudamericano, che qualche settimana prima se ne era tornato al suo paese, in Uruguay, lasciandola sola.
Quando aveva saputo del concorso, si era detta che era arrivato il momento di spiccare il volo.
Lo aveva saputo da Bob, che a sua volta era stato contattato dal comune.
Masquerade street festival era il titolo della manifestazione, esibizione di costumi, canto, ballo e artisti di strada. E di ruote. Sì, perché lo sponsor era un famoso marchio di pneumatici ed era prevista anche una sfilata in auto, purché decappottabili e con le gomme giuste. Le avrebbero montate gratuitamente a tutte le macchine in concorso. Ci sarebbe stata anche la diretta tv sulla rete nazionale. Si parlava di un talent show.

Daniela-Desiree pensò che era la sua grande occasione. Di ballerine brave come lei in giro ce ne erano poche. E poi poteva considerarsi anche bella. Di una bellezza acerba magari, ma molto promettente.
Aveva presto convinto Giorgio e Bob a travestirsi rispettivamente da Fred Astaire e Cavaliere Jedi, avrebbero sfilato in auto con lei, per poi assumere una funzione decorativa nel momento in cui avrebbe cominciato a ballare. Aveva provato a insegnargli dei movimenti, ma attitudine e impegno, sopratutto di Bob, l’avevano presto convinta a scegliere una soluzione diversa.
A dieci giorni dal festival la cabrio però non l’aveva ancora trovata. Una iella maledetta, e seppure Bob, a cui si era rivolta, ci avesse provato con la sua rete di amicizie, non aveva cavato un ragno dal buco: di spider in circolazione non è che ce ne fossero molte, e quelle che c’erano erano prenotate. In realtà si era mosso tardi.
Senza il giro in macchina poteva partecipare soltanto fuori concorso. Di affittarla nemmeno a parlarne. I soldi, da quando suo fratello aveva fatto una montagna di debiti, bastavano appena per arrivare alla fine del mese. Il suo umore precipitò, aveva paura di vedere il suo sogno infrangersi sull’amara realtà che la circondava: sarebbe rimasta al terzo piano di quel palazzone dove i tramonti somigliavano a una mezza apocalisse. E, ironia della sorte, per colpa di una di quelle auto che vedeva sfrecciare tutti i giorni al posto del panorama.
Continuava a fare prove davanti allo specchio, ma subito dopo cadeva preda di rabbia e frustrazione.

2. Betty

Giorgio si alzò tardi e la trovò seduta al tavolo della cucina. Aveva appena finito di provarsi il costume. Lo sguardo era da cenerentola ferita. Gli occhi fissi verso il viadotto.
Tanto valeva giocarsi l’ultima carta. Ci pensava da un paio di giorni.
“Ci sarebbe Betty, quella di Zio Jack”.
Per Daniela-Desiree fu come se qualcuno avesse recuperato dalla pattumiera una pagina strappata anni prima dal libro della sua memoria.
Il vero nome di Zio Jack era Antonio. Lo chiamavano così perché si era giocato tutto a poker, compresa l’autofficina dove lavorava anche il padre, due mesi prima che i suoi si sposassero. Da allora era diventato Zio Jack, da quella passione fatale per i fanti.

Quel soprannome le ricordava che il primo motivo di divorzio tra i suoi era nato da una leggendaria e maledetta partita di carte.
Di quella notte in cui era cambiato il destino dell’intera famiglia, avevano salvato soltanto una cosa: una Autobianchi Ypsilon 10 Fire, utilitaria fuori e sportiva dentro. Zio Jack poi l’aveva riattata magnificamente a cabrio per il matrimonio del fratello. L’aveva chiamata Betty. ma nessuno aveva mai capito in virtù di cosa.
Su Betty, Daniela e suo fratello ci avevano passato i primi anni della loro felice infanzia. Quando si divertivano ancora tanto, nonostante i problemi. Quando pioveva e la capotte gocciolava, che esteticamente Zio Jack aveva fatto un capolavoro ma qualche misura forse l’aveva sbagliata.
Lì aveva imparato a viaggiare con il sole che ti illumina il viso e il vento che ti sconcica i capelli, come diceva sua nonna: li riempiva di disordine. Su quella Ypsilon 10 aveva imparato quando arrivava la primavera.
Poi un giorno Betty tornò a Zio Jack, senza che nessuno sapesse il vero motivo.
E le cose tra i suoi genitori cominciarono ad andare male.

“Tu pensi che cammini ancora?”, chiese a Giorgio.
“Ne sono più che certo”, le rispose, “il problema è recuperarla”.
Qualche anno dopo la perdita dell’autofficina, Zio Jack se ne era tornato nella casa di campagna, quella appartenuta ai bisnonni e abbandonata una settantina di anni prima, quando una bomba “alleata” ci era caduta su, lasciando tutti miracolosamente illesi. Si trovava a una ventina di chilometri, sull’altro versante delle colline. Zio Jack l’aveva risistemata pietra su pietra dove aveva potuto, o usando un impasto di argilla e paglia dove non poteva. Allevava animali e coltivava la terra. Aveva pochissimi contatti con il mondo esterno, quelli indispensabili. Qualcuno aveva preso a chiamarlo addirittura l’eremita.
Le poche notizie che arrivavano dicevano che non si poteva arrivare in auto da lui, e non tanto perché l’ultimo tratto di strada era sterrato. Solo in bici o a piedi, al massimo con l’apecar se si doveva caricare qualcosa. Altrimenti ti scioglieva addosso i cani.
“Non lo vediamo da dieci anni”, disse Daniela-Desiree.
“Una ragione in più”, rispose il fratello.

Daniela decise che a trovare Zio Jack ci sarebbe andata da sola. Ma visto che né lei né Giorgio ricordavano come arrivare alla casa che era stata dei loro avi, organizzò in modo da farsi soltanto l’ultimo pezzo di strada in bicicletta. I primi quindici chilometri li percorse seduta comodamente nell’auto di Bob, a cui aveva fatto montare il portabagagli sul tetto, dove viaggiava la sua bici bella dritta. Una sorta di indennizzo che aveva preteso per il suo fallimento come procuratore di decappottabili.

Durante il viaggio la sua memoria si aprì, come una cassaforte nascosta dietro al dipinto quando un ladro trova la giusta combinazione.
Con Betty aveva avuto un rapporto speciale. Era stato proprio ascoltando la radio nell’abitacolo di quella macchina con la capotte abbassata che aveva scoperto la danza. Era un pomeriggio d’estate, tornavano dal mare. La musica andava con la strada e a lei sembrò impossibile rimanere ferma. Si alzò sulle gambe esili e fece fare al suo bacino una curva sinuosa mentre le sue piccole braccia andavano su. I suoi genitori e suo fratello lanciarono un grido di divertita approvazione. Girare dentro Betty era bello come stare su una barca.

Ci misero un po’ prima di avere le indicazioni giuste. Zio Jack si era nascosto bene, si vedeva che non aveva voglia di visite. La strada che portava alla fattoria era quasi una mulattiera, “al bivio” bisognava percorrerla “per 5-6 chilometri, quella che va verso la collina”, aveva detto un contadino su un trattore. Bob e Giorgio decisero di accompagnarla in auto ancora per un po’, farla in bicicletta non sarebbe stata una passeggiata neppure per Daniela, che aveva una forma fisica invidiabile. Proseguirono per un altro paio di chilometri, il tempo di superare qualche curva, poi fu Daniela-Desiree a chiedere di fermare e di scendere. Adesso la superficie della strada era meno accidentata e soprattutto si stagliava dritta da fare impressione. Finiva, ad anticiparla con lo sguardo, su una piccolissima sagoma rettangolare bianca incastrata tra il verde e il marrone ai piedi della collina. Daniela-Desiree montò sulla bici e li salutò sorridendo, per poi sparire a poco a poco davanti a loro. Erano preoccupati, ma lei non aveva voluto saperne, e li aveva mollati lì, vicino a un grande albero di fichi.
Non ci mise molto ad arrivare, un leggero vento a favore le rese il tragitto più facile e piacevole. Quando mancavano un centinaio di metri si accorse che ad attenderla c’era un gruppetto di persone. Erano tutte ferme e la scrutavano quasi con incredulità.

Ci fu un lungo momento in cui il fruscio delle foglie mosse dalla brezza fu calpestato dal suono sordo dei tacchetti di gomma che vibravano sui cerchioni delle ruote per frenare la bici. Scese dal sellino, li guardò tutti e disse: “sono Daniela Dante e cerco mio zio Antonio”.
Lo stupore zittì ogni suono.
Daniela incrociò lo sguardo di un ragazzo alto e muscoloso, con un piccone tra le mani e il viso sveglio. Lo guardò con la speranza di non aver sbagliato posto.
Poi un uomo con i capelli grigi e gli occhi azzurri, esclamò:
“Che mi venga un colpo!”.
Riconobbe la voce di Zio Jack. Aveva parlato proprio come nei film western che anni prima amava guardare insieme a suo padre.
Non si mosse molto, più che altro la guardava incredulo.
Daniela ebbe il tempo di scrutare, di notare due esseri femminili in quella compagnia di sette persone in abiti da lavoro. Zio Jack non doveva essere l’eremita che descrivevano. E i cani erano sciolti e mansueti.
Si avvicinarono poco alla volta, provavano entrambi un lieve imbarazzo. Zio Jack voleva darle un bacio, ma lo frenava un senso di colpa. Fu lei ad abbracciarlo, mentre lui le diceva a mezza voce “Cristo come ti sei fatta bella, a momenti mi diventi una donna”.
“Meglio dirtelo subito: sono qui perché mi serve Betty”.
Il volto di lui fu quasi sollevato. Sorrise, mostrò un’autentica disponibilità.
“Certo… non è che fai un affare a prenderla… ma raccontami di te, di tuo fratello. Come sta tua madre?”

Daniela si trattenne meno di mezz’ora. Il tempo di presentarsi agli altri, di scambiare due parole con suo zio, che in fondo conosceva solo nei ricordi da bambina, di farsi spiegare cosa faceva così lontano dal mondo. Se non le ragioni profonde, almeno quelle evidenti. Una vita votata alla terra, con i suoi ritmi e i suoi cicli. Le sembrò tocco come quando giocava a poker, ma straordinariamente sereno.
“Mi spiace zio, tu hai un sacco da fare e io ho fretta. Mi servirebbe Betty. Te la riporto tra una decina di giorni. Magari mi faccio accompagnare da Giorgio, così vi salutate”.
“Ma a cosa ti serve un’auto di un quarto di secolo fa?”
Zio Jack non seppe trattenere la curiosità.
Avrebbe voluto nasconderglielo per una forma di pudore, ma la sua mente seppe partorire soltanto la verità.
“E’ per un concorso… roba di artisti e ballerine, c’è bisogno di una cabrio in cui sfilare”.
“E tu sei una ballerina?”
“Sono una pole dancer”.
“Cioè?”
“Ballo sui pali, una specie di ballerina acrobatica”.
“Allora sei come Duccio! Duccio, qui c’è una tua collega, vieni!”
“Duccio quando non è qui fa il saltimbanco al circo”, aggiunse rivolgendosi a lei.
Duccio abbandonò il piccone e si avvicinò. Era il ragazzo alto e muscoloso con cui aveva incrociato lo sguardo appena arrivata. Aveva i riccioli neri, ma un taglio corto ne aveva lasciato solo dei ciuffi.
Le era piaciuto subito.

Parlarono un po’ e lei sorrise parecchio. Zio Jack tentava di trattenerla, ma lei aveva paura che sarebbero finiti a parlare del padre, o del suo lavoro, o di tutti e due, e in ogni caso voleva evitarlo.
Si fece portare con determinazione verso Betty. Era custodita in una specie di rimessa enorme, in penombra, a fianco di un paio di vecchi trattori ed era coperta da un telo grigio.
Duccio sollevò il telo, le chiavi erano sul cruscotto, aprì il cofano e Zio Jack attaccò la batteria. Poi presero il compressore e gonfiarono le gomme. Per ultimo misero la benzina. Partì al primo colpo.
“Qui siamo attrezzati”, ammiccò Zio Jack.
Fu lui a portarla fuori dalla rimessa. Quando la vide alla luce del sole, Daniela ebbe un tuffo al cuore e le venne un gran magone. Betty aveva conservato le sue fiancate color panna e quella capotte per metà elegante e per metà goffa. Guardò l’etichetta sulla parte posteriore, Ypsilon 10 Fire, era brillante come se fosse uscita il giorno prima dalla concessionaria.
Abbracciò suo zio quasi commossa.
“Grazie”.
Poi si mise alla guida, nonostante non avesse la patente. Mentre sistemava il sedile sentì Zio Jack chiamarla.
“Dany…”
Da piccola la chiamavano così.
“Se vuoi spiccare il volo, lascialo andare questo concorso”.
L’ultimo sguardo prima di andare fu per Duccio, il saltimbanco.

3. La gara

Nei giorni successivi il suo entusiasmo era alle stelle. Quel tuffo nel passato aveva riaperto delle ferite, ma le aveva dato anche tanta energia. Sentiva che con Betty avrebbe spaccato il mondo, perché quell’auto possedeva una forza misteriosa. Nei pochi minuti in cui ne era stata alla guida, di ritorno dalla fattoria di Zio Jack, aveva avuto la sensazione che guidare quell’auto fosse come guidare il proprio destino: potevi scattare, ma ti restava la leggerezza come incognita. Che se avesse ascoltato i giri del motore, avrebbe capito la rabbia e i sorrisi della gente, e perché era rimasta anziché fuggire lontano.
Quella consapevolezza la portò negli allenamenti. Provava e riprovava le sue forme, e a ciascuna cercava di dare un colore o un’emozione. Non era mai stata così concentrata, lucida e determinata. Era talmente presa dalla preparazione del suo numero da non accorgersi che sua madre alla vista di una Autobianchi Ypsilon 10 Fire decappotabile, identica a quella del suo matrimonio, parcheggiata sotto casa, non aveva reagito bene. Aveva chiesto spiegazioni al figlio, che si ostinava a considerare responsabile, in quanto maschio e maggiore. Giorgio se l’era cavata con un “a Daniela per il concorso serviva una cabrio, è l’unica che abbiamo rimediato”.

Non era andata oltre, per una forma di pudore. Aveva evitato per il tutto il periodo dell’adolescenza della figlia di parlare di quella ferita, la separazione. Se lei aveva scelto di rinunciare al marito, Daniela aveva perso suo padre senza una spiegazione plausibile. La scelta di Desiree pole dancer stava tutta lì: la sensualità serviva a scacciare il dolore, la leggerezza a smarrire il filo dei ricordi.
La madre cominciò a rincasare tardi la sera, a un’ora in cui Daniela era già uscita per andare in palestra e trasformarsi in Desiree Dancer.

Desiree dal canto suo era indecisa sulla colonna sonora della suo numero. A un giorno dalla gara non aveva ancora scelto. Tra i Gun’s and Roses e Amy Winehouse, tra il rock e il soul. Di This I love, il pezzo dei Gun’s and Roses, amava il ritmo incalzante e sincopato, il crescendo tra le note che diventavano melodiche se suonate dal piano e graffianti quando a essere protagonista era la chitarra elettrica. Di Back to Black le piaceva l’incedere elegante, fintamente sommesso dei drums e delle tastiere, su cui entrava con dura dolcezza la voce di Amy, che era stata il suo idolo sin dal primo momento in cui l’aveva sentita. In fondo le sue esibizioni nascevano sempre sul momento, anche se erano il frutto di un duro lavoro.

Il pomeriggio del concorso Bob arrivò con leggero ritardo e questo la rese più nervosa di quanto già non fosse. Trovò lei e Giorgio che l’aspettavano in auto, perfettamente vestiti e truccati. Daniela-Desiree con una lunga mantella nera che le copriva le spalle e le gambe nude, i capelli tirati a meraviglia in uno chignon, gli occhi a mandorla segnati da una linea di matita nera e le labbra carnose lucide di rossetto. Giorgio con il frac, il gilet, la rosa nel taschino e il cappello a cilindro. Per un momento si senti fuori luogo con la sua toga da jedi marrone che cadeva sul kimono sgargiante, ma dopo tutto Desiree non aveva fatto altro che assecondare le loro passioni: lui praticava da arti marziali e Giorgio seguiva un corso di ballo. Nemmeno il tempo di scambiare un paio di battute che fu spinto velocemente a prendere posto a fianco di Giorgio che era alla guida, mentre sul sedile posteriore si accomodava la pole dancer. Giorgio mise in moto, mentre Bob su richiesta di Desiree infilava un cd nell’autoradio. Quando Axl Rose, leader dei Gun’s, partì con il suo falsetto strozzato che scivolava sulla scala melodica ripetuta, sentirono l’attesa sciogliersi in un brivido lungo la schiena. Giorgio ingranò la prima ed ebbe la certezza che Betty avrebbe fatto la sua parte. Dal giorno in cui quell’auto era tornata, era rimasto pulito.

Avevano fatto pochi metri quando apparve la loro madre. Passo frettoloso e aria trafelata, era andata via dal lavoro per arrivare prima che si muovessero. E ci era quasi riuscita. La prima cosa che vide – l’unica – fu sua figlia Daniela, con i capelli tirati dietro e truccata come una donna, soprattutto la vide dentro Betty, e rimase pietrificata. Le somigliava in maniera impressionante, se qualcuno l’avesse catapultata ventiquattro anni indietro tutti avrebbero fatto fatica a distinguerle.
Axl cantava

And now I don’t know why
She wouldn’t say goodbye…

Girò la testa per seguirla con lo sguardo, incapace di ogni altro movimento. Rimasero tutti impigliati in quella musica, nella forza di quel motore che li stava separando.
Desiree sentì che l’incontro dei loro occhi squarciava il tempo, e seppe cosa aveva provato sua madre il giorno in cui si era sposata.
E un attimo dopo seppe anche che la forza profonda che la spingeva verso lo spettacolo era un’alleanza tutta femminile: tra lei, sua madre, Betty e la voce di Amy.

Ufficialmente fu la fretta a non farli fermare. In realtà fu come se qualcuno avesse innescato un allontanamento inarrestabile. Forse era l’aria, che circolando libera in quell’auto la spingeva magicamente, come un soffio di vento con una barca a vela, forse era il motore che si faceva tirare troppo facilmente dai colpi di acceleratore. Si ritrovarono alla rotonda e poi a imboccare la rampa senza nemmeno avere il tempo di accorgersene. E dopo qualche centinaio di metri incapparono nel loro balcone e nella loro cucina, che li guardavano da lontano, piccoli e fermi mentre il mondo girava.
Daniela, che si alzava e gridava di continuo per l’eccitazione, fu l’ombra lunga, più dell’auto, che per una frazione di secondo attraversò il viso della madre.

La madre, da parte sua, era salita lì di proposito, ma questo Daniela non lo seppe mai.
Arrivarono al pit stop, la stazione per il montaggio delle gomme allestita dallo sponsor. Scesero per perfezionare la procedura di iscrizione, mentre l’auto fu sollevata per il cambio gomme: era guardata con un misto di ammirazione e scetticismo. Fu allora, mentre parlava con la ragazza in divisa all’accettazione, che le parve di scorgere Duccio. Tra la folla, a una cinquantina di metri, c’era un trampoliere con le stesse spalle e gli stessi riccioli scorciati, che si avviava a grandi e lenti passi verso il centro del festival. Pensò che la D iniziale del suo nome coincideva con la sua collezione, pensò che le sarebbe piaciuto molto incontrarlo. Ed ebbe un’illuminazione.

“Tu vai a piedi”, disse a Bob che le era a fianco.
“Ma come? A piedi?!’”, obiettò Bob.
“Guardaci: Giorgio ed io siamo una coppia. Abbiamo lo stesso stile e siamo vestiti tutti e due da ballerini. Tu non c’entri niente. Anche questo valuterà la giuria. Ti prego, è la mia occasione”.
Il ragionamento filava. Soprattutto, Bob non se la sentì di rischiare che un’eventuale sconfitta potesse essere attribuita al suo strambo travestimento. Abbozzò.

Ripartirono in due, con l’obbligo di non superare i 20 chilometri all’ora, e non soltanto per una questione di sicurezza. A velocità bassa, la scritta fosforescente che marchiava gli pneumatici si leggeva nitidamente da entrambi i lati del percorso, dove dietro le transenne andava assiepandosi il pubblico. Daniela-Desiree cominciò a trasformarsi in un animale da palcoscenico. Giorgio guidava divertito dai fischi e dalle acclamazioni che piovevano su una Desiree in piedi e senza più la mantella.

Alla piazza grande, dov’era il palco, giunsero facendo il giro largo, entrando da dietro. Li accolsero quelli dell’organizzazione, che gli dissero che sarebbero stati ventesimi su trentacinque esibizioni: gli conveniva rilassarsi e magari farsi un giro, perché l’attesa sarebbe stata lunga. A Daniela-Desiree la notizia piacque molto, calcolò che sarebbe entrata in scena tra le nove e mezza e le dieci, l’orario di massima affluenza. E così fu. Salirono la scaletta tenendosi per mano. A Giorgio il cuore batteva a percussione, si sentiva come un vero debuttante, anche se il suo ruolo era da comparsa. Desiree invece aveva l’adrenalina a mille e gli occhi dilatati come quelli di un felino. Lo speaker gridò il suo nome, esattamente come se l’era immaginato centinaia di volte. Ripetè tra sé le ultime parole.

Desiree Dante in…
Daaaark Diamond!!!

Poi sussurrò al fratello: “Dopo l’inchino prendimi la mano e tirami il braccio per avvolgermi in una stretta”.

Era una delle poche cose che Giorgio aveva imparato nei suoi corsi di ballo. Lo fece con i tempi giusti, dandole così modo di liberarsi di lui con una spinta irriverente. Si tolse i cappello e le lasciò il palco.
Fu in quel momento che arrivò il primo colpo di batteria di Back to black. Desiree si avvicinò con passi lunghi e sinuosi verso uno dei due pali che avevano allestito. La prima figura che disegnò fu un airone, piegando il busto in avanti, sollevando in un solo movimento una gamba di lato e le due braccia, che si tesero a mimare un volo. Poi afferrò con una mano la supeficie dell’asta, con il suo corpo modellò una specie di S intorno al suo asse e cominciò a volteggiare elegante e leggera come se avesse un paio di ali invisibili. Lo faceva con una tale velocità da far pensare a un trucco. Ma agli spettatori non diede il tempo di decifrare né quello che vedevano né i pensieri reconditi. Congiunse le mani intorno al palo, tese le braccia e posizionò il corpo come se dovesse tuffarsi verso l’alto. E girò. Una, due, tre volte, posò per un attimo i piedi a terra, prese una spinta per sollevare le gambe al di sopra della linea del bacino, e poi un volteggio mentre continuava a sollevarle fino a superare la testa, girando come una trottola: facendo leva sulle braccia, si ritrovò capovolta a gambe divaricate, come una ypsilon.

Fu quando il pezzo si apriva in una specie di battito del cuore, mimato dai piatti e dalle percussioni, con la voce di Amy che ripeteva ritmicamente e con una distorsione metallica Blaaack, che vide con la coda dell’occhio una figura entrare nel suo spazio scenico.
Era a torso nudo e portava dei pantalacci aderenti, gialli con tonalità verdi. Ideali per attirare l’attenzione, quasi quanto il suo vestito.

Non lo riconobbe subito, perché era troppo presa dalle sue piroette e contorsioni, ma quando lo fece, trasalì. Era Duccio, che aveva afferrato l’altro palo e aveva cominciato a muoversi. Salì sospeso nel vuoto come un gatto che camminava in verticale, girò come un’elica inclinata tenendosi su un solo braccio, poi si fermò un momento a guardarla e prese a eseguire i suoi stessi movimenti.
Desiree in quel frangente ebbe paura, ma seguendolo con la coda dell’occhio si accorse che era veramente bravo. E infatti il pubblico aveva cominciato ad accompagnare le sue evoluzioni con degli “ohoooo” di autentico stupore.

Mancava poco ormai, una dozzina di secondi. Desiree si preparò al gran finale, una discesa a testa in giù con le gambe incrociate intorno alla pertica, atterraggio morbido e capriola a uscire sul pubblico. Si concentrò in modo da eseguire il pezzo senza sbavature e assicurarsi l’applauso. Lasciò che Duccio si tirasse fuori di impaccio da solo, perché da solo era entrato. Sarebbe rimasto senza musica, sospeso in aria.

Così andò. La sua scelta dei tempi fu perfetta, tanto che era in piedi davanti agli spettatori entusiasti, un attimo prima che l’ultima vibrazione della colonna sonora si perdesse nello spazio.
Un applauso scrosciante partì da una folla che le apparve sterminata, il suo respiro affannato muoveva i diamanti finti del suo corpetto creando un gioco di riflessi vivace come fuochi d’artificio, e un sorriso enorme le illuminava il viso.

Duccio era rimasto appeso. Fu allora, mentre lei pensava che tutto fosse finito, che lo videro assumere la posizione di un gatto che camminava in verticale, piegare una gamba e darsi una spinta di controbalzo, volteggiare nel vuoto staccandosi dall’asta, per “atterrare” sull’altra da tergo, all’altezza dei glutei, mentre le gambe si chiudevano a tenaglia per impedire che precipitasse.
Il pubblico esplose in un boato, ma Desiree riuscì a vedere, voltandosi in ritardo, solo che stava ripetendo la sua ultima figura. Senza accorgersene si ritrovò prima in orizzontale tra le sue braccia e poco dopo portata via come un fagotto. Un secondo applauso scrosciò forte come una grandinata.

Duccio non la mollò nemmeno quando furono nella piazza, dietro al palcoscenico. Lei avrebbe voluto essere arrabbiata, l’aveva strappata al suo trionfo, non lo era affatto, il modo in cui l’aveva rapita le era piaciuto, si limitava a chiedere ogni tanto “ma dove mi stai portando?”, faceva finta di protestare.
Poi arrivarono davanti a Betty, e lui la mise giù.
“Andiamo via”, le disse guardandola negli occhi.
Lei non disse nulla, lo avrebbe seguito anche in capo al mondo.
Non restò neppure sorpresa quando vide che aveva le chiavi della macchina. Le apri lo sportello, lasciò che si accomodasse per poi richiuderlo. Fece il girò ed entrò.
Più si allontanavano dal festival, più le strade si facevano quiete, i suoni naturali, il loro respiro regolare.

Soffiava una brezza calda quella sera, ma Daniela sentiva i brividi attraversarle la pelle. Forse era il ricordo degli applausi, forse era il vento di quella straordinaria avventura.
Pensò che stare in quella macchina era bello come stare su una barca.
La luna illuminava i suoi diamanti mentre Betty danzava sull’asfalto della strada.

 

 

© Gianni Aniello 2015 All rights reserved

 

Questo racconto è stato scritto nel 2015 in occasione delle celebrazioni per il  trentesimo anniversario della Y10. Impiegai quasi due settimane di lavoro per finirlo, anche perché ai finalisti del concorso erano riservati ricchi premi e cotillons. Ovviamente non d fui tra quelli, prima di tutto – fra tante valide ragioni – perché della automobile Y10 in fondo questo racconto parla molto poco. Ma a parte questo, tutto sommato credo che non sia venuto male.