La grande paura è passata
quant'è bello vedere la Juve fuori dalla Champions League
Quando in un Santiago Bernabeu ormai rassegnato l’arbitro inglese Oliver ha fischiato il rigore per il Real a una manciata di secondi alla fine, la Storia calcistica europea si è rovesciata in un istante. Più di quanto non avesse fatto dopo il secondo gol di Cristiano Ronaldo a Torino, che pure aveva dalla sua una cifra stilistica e tecnica tra l’insuperabile e il definitivo. Più di quanto non fosse incredibilmente accaduto nei precedenti 92 minuti e 50 e rotti secondi: tre gol rifilati ai Blancos nel loro tempio del calcio senza prenderne nemmeno uno.
Mezza Italia juventina che pregustava un’impresa epica – come loro nessuno mai – si è vista beffata in un finale che forse nemmeno l’ultimo erede della stirpe dantesca avrebbe avuto il coraggio di scrivere, e che invece un arbitro inglese dalla vocazione notarile non ha esitato a interpretare. L’altra metà del Belpaese, antijuventina per pancia, invece si è risvegliata all’improvviso da un incubo sportivo che rischiava di materializzarsi sotto i propri occhi. Quello per cui l’odiata squadra bianconera, abituata a vincere con ogni mezzo, avvantaggiata e riverita come tutti i potenti, stesse dando una dimostrazione di forza sportiva mostruosa. Battendo errori arbitrali e critiche feroci, blasone avversario, forse il più prestigioso al mondo, e strapotere tecnico. L’incredibile non stava solo nel risultato e nel modo in cui stava maturando: un Real irretito in una gabbia tecnico tattica dall’efficacia surreale, tirata fuori dopo che l’andata avrebbe steso un elefante per quanto i colpi dei madridisti avessero fatto male.
L’incredibile stava pure in quella rovesciata, che più che un gol sembrava un verdetto divino.
Il punto è che il Real si era fermato lì.
Invece da lì, dopo una settimana passata a leccarsi le ferite, la Juve aveva capito una cosa: che per giocarsi le chances, ormai ridotte a un lumicino, di qualificazione, avrebbe dovuto ricorrere alla forza della follia e alla spregiudicatezza, alla bellezza che le storie del calcio sanno scrivere oltre il risultato, avrebbe dovuto credere in un’impresa in cui i ruoli di Davide e Golia erano rovesciati una volta tanto a suo sfavore, abiurando il pragmatico realismo che non l’abbandona mai, tignoso e spesso meschino. Una specie di rivoluzione per la filosofia bianconera. E lo stava facendo, in maniera magistrale.
Per questo i 32′ minuti trascorsi tra il gol di Matuidi e il fischio di Oliver per l’Italia antijuventina devono essere stati piacevoli come passeggiare sui carboni ardenti a piedi nudi. Una Juve che declina soprattutto la bellezza e il coraggio non si era mai vista. Peggio che mai, lo stava facendo abbinando bellezza e risultato, il binomio su cui si è costruito il sogno a oggi irrealizzato dei suoi detrattori. Con l’ennesimo record pronto per l’archiviazione. Ci hanno pensato il rigore e Cristiano Ronaldo, che a dispetto della sua infinita bravura è sembrato che fosse capitato nel posto sbagliato per tutta la partita, a “rimettere le cose a posto”. Si può tornare tutti nella comfort zone indenni come prima della partita. Si può continuare a gridare alla grande juvemerda e rubentus, perché per molti la juve se non ci fosse si dovrebbe inventarla esattamente come la vogliono: arrogante, sprezzante e di un cinismo che oscilla tra la spietatezza e la viltà.
I commenti giubilanti – di scampato pericolo – non sono altro che figli di questa paura. Di vedersi preceduti sul terreno eletto a “battaglia sportiva”. Come se chi è potente, cinico e a volte un po’ baro, non possa mai scoprire dentro di sé – e peggio che mai mostrare al mondo – di essere altro. Come se bellezza e coraggio fossero brevettabili e spendibili solo da chi è abituato a perdere. Fa un po’ impressione il modo in cui sono piovuti commenti celebrativi e giustificativi della vittoria del Real Madrid. Dalle certezze su un rigore che ci poteva anche stare ma che lascerà sempre un dubbio sulla giustezza, agli sbeffeggiamenti nei confronti di Buffon, alle godurie esibite e ai contrappassi evocati, il grande rito per esorcizzare la paura ha preso infinite forme espressive. Nessuna delle quali, si è ricordata, nemmeno per un momento, il motivo per cui si alimenta il disprezzo antijuventino: quel privilegiare il risultato su ogni altra cosa.
Eppure coerenza logica e morale avrebbe voluto il contrario: se non proprio un applauso per essersi convertita alla “propria” filosofia almeno il rispetto che è dovuto a chi si è mostrato autenticamente valoroso. E invece no: la bellezza invocata e brandita nel sostenere i propri colori non ammette esibizioni concorrenti.
Non c’è, a un’analisi più approfondita, molto da meravigliarsi. Perché al fondo dell’essere tifosi c’è la custodia reazionaria di una identità costruita in antitesi – e quindi mai libera e men che mai tesa alla liberazione – che si regge solo se alimentata da odio, conflitto e una certa dose di violenza. Il luogo in cui la propria “juventinità” rimossa e rinnegata può travestirsi e essere sdoganata come invocazione di “giustizia”.
Chiarito il quadro, resterebbe da comprendere, ancora una volta, la potenza sorprendente che affonda le sue radici in una partita di calcio. Una potenza strabiliante per quanto sappia parlare del mondo e della vita, solo se si ha un minimo di capacità di leggerle. Che sviscera le contraddizioni nemmeno fossero noccioline al tavolino di un bar: dal Var invocato da Agnelli alle dichiarazioni di Buffon sull’arbitro. Ma anche qui, ad averne di tempo e voglia, non mancherebbero sorprese. Ma sarebbero troppe per essere lette tutte insieme, soprattutto per chi parla (un tantinello a sproposito) di gioia e rivoluzione.
To be continued?
Magari continua, magari no 🙂