Una casa con le ruote
Il blog di un belga-napoletano
3. Il nuovo furgoncino
Arrivo a casa sua. Ora vive in una bella casa, con garage, giardino e ha anche un piccolo orto. Era la casa del prete, e infatti è attaccata alla chiesa.
Lo trovo in giardino. Mi accoglie bene, per lui l’ospitalità è sacra.
“Abbiamo due opzioni”- gli spiego -”C’è un furgoncino ad Anversa a uno in Olanda”.
“Domani si va in Olanda”, mi dice secco.
Il giorno dopo vado a da lui entusiasta. Lo trovo piuttosto silenzioso. Sembra seccato.
Dopo qualche ora di viaggio arriviamo a destinazione. Il venditore ci fa provare il mezzo, un Renault Master bianco. A me piace molto e poi il prezzo è vantaggioso, seimilanovecento euro, meno di quanto avevo in mente di spendere. Facciamo un giro di prova, ma dopo un paio di chilometri Armen accosta e apre il cofano motore. Svita il tappo del serbatoio dell’olio. Poi chiama un suo amico russo e in video-chiamata gli mostra il fumo bianco che viene fuori.
Trenta secondi dopo chiude la telefonata con un Dawai pasha. Vuol dire “ok, ciao”.
Mi guarda infastidito e dice: “il motore è fuso, andiamo”.
Lungo il ritorno mi dice che deve vedere un amico che vive da quelle parti. Lui ha amici in tutto il mondo, persino a Los Angeles. Lì, una volta, grazie alla sua rete di contatti, vennero a prendermi con una limousine dai vetri scuri e blindati e la musica sparata a tutto volume.
“Se torniamo ora forse riusciamo a vedere anche l’altro”, gli faccio. Le mie esperienze precedenti con i suoi giri di amicizie per l’Europa non mi fanno presagire granché di buono.
Mi guarda duro.
“E’ colpa tua se siamo venuti fin qui a perdere soldi e tempo, potevi almeno chiedere se era tutto a posto”, risponde.
Sa benissimo che non è così, ma ormai la tensione è salita e io cerco di non contraddirlo. Anche perché sarebbe inutile. Si va dall’amico. E lui per l’intero viaggio non mi rivolge più la parola. Parla solo in russo e al telefono.
Assorto nei miei pensieri mi tornano in mente molte cose. A quanto è stata bella la nostra amicizia i primi anni.
E’ dopo la morte di Seda che Armen è diventato acido, triste e pesante. E questo ha indebolito il nostro rapporto. Lui mi accusa di non frequentarlo più come una volta, ma quando l’ho fatto mi sentivo in gabbia, avevo vicino una persona che con la sua pesantezza mi accusava tacitamente di qualcosa di cui non ero responsabile.
Ricordo l’ultima volta che ci eravamo visti. Mi aveva trascinato in un postaccio alla periferia di Lille. Un capannone dove venti armeni bevevano e rimettevano a nuovo auto. Dopo qualche ora trascorsa nel capannone, si va tutti in una stanzetta. Cognac armeno che scorre a fiumi, molti ubriachi, tra cui Armen. E’ la loro tradizione, brindare per buon augurio. Fare un discorso e poi ripetere il brindisi. E poi ancora, fino a perdere il conto. Ovviamente i discorsi sono in armeno e io non ci capisco un acca di niente. Armen è fuori di sé. Urla, è aggressivo, pare davvero un mafioso. Provo a farlo ragionare.
“Armen, è tardi, perché non ce ne andiamo a casa?”
“Non rompere le palle, non accetto consigli da te. Sei cambiato, non sei più quello di un tempo”.
Nemmeno un minuto dopo si avvicina e mi dice: “adesso ti faccio conoscere il boss armeno della Francia”.
Era l’ultima cosa che avrei voluto fare, ma ormai sono in trappola. Arriviamo a casa del boss in sei. Armen, quattro armeni sulla cinquantina ed io, che sono l’unico a non essere vestito di nero e a indossare collane e bracciali d’oro, pesanti e vistosi. Il boss è un tipo magro, brutto, con un ciuffetto di peli sul mento. Indossa una tuta dell’Adidas con strisce dorate e la scritta “Armenia” su una spalla. Ci fa accomodare e servire tè, caffè e biscotti dalla sua ragazza ucraina. Armen sin dall’inizio ha un atteggiamento di sfida. Prima nei movimenti e poi nel tono. Ogni tanto lo provoca platealmente, tanto che i quattro che sono con noi provano a fare da intermediari e cercano di addolcire le sue parole. In tutto questo io sono lì, che mangio biscotti e non capisco una parola. Alla fine ne usciamo, ma faccio una promessa a me stesso. Mai più.
Arrivati a casa del suo amico l’accoglienza che riceviamo è fantastica, come da tradizione armena. Una cena coi fiocchi, che si chiude con una buona annaffiata di cognac del Monte Ararat, la loro Montagna Sacra, che un tempo era in Armenia ma che oggi è sul territorio turco. Dopo tutto quel cognac non possiamo che dormire lì.
Ad Anversa ci andiamo il giorno dopo. L’oggetto della trattativa è un Ford Transit bianco del 2013. Brilla per quanto è lucido e pulito.
“Lo proviamo?”, gli faccio.
“Guidi tu”, risponde con arroganza.
“Come guido io?! Io non capisco un tubo di motori!”.
Alla fine, di malavoglia, sale. Non senza prima aver creato un notevole imbarazzo. A me e al venditore che è seduto al mio fianco. Armen con quel giubbotto di pelle scura che ha addosso sembra proprio un gangster. Anch’io sono a disagio, non per paura, ma per il suo atteggiamento.
Finito il giro di prova, torniamo alla base.
“Allora?”, gli chiedo.
“Non lo so, decidi tu”.
“Decido io?! E che ne so?!”
“E’ a posto?”, gli domando.
“Sì, però decidi tu”.
Mi ha mandato in tilt. Diecimila euro, questo era il prezzo, per me sono una bella cifra. Ero sotto stress e in quelle condizioni prendere una decisione è sempre molto rischioso. Ho preferito non farlo. La sua cattiveria mi aveva ferito.
Così ce ne andiamo avendo concluso un bel niente. Prendiamo la strada del ritorno immersi ciascuno nei propri pensieri. Io con un senso di vuoto e di rabbia, lui solo con la sua durezza. Ed è allora che si è fatta sentire, un’altra volta.
La mia voce universale.
“Torna indietro e prendilo”, mi diceva. Un po’ come quando Obi Wan Kenobi dice a Luke Skywalker di usare la Forza.
Ha parlato lei attraverso di me.
“Ferma la macchina, lo prendo!”. C’era un anno di garanzia e io ero senza casa.
Invertiamo la marcia, lascio un acconto e mi impegno a perfezionare l’acquisto.
Poi abbiamo ripreso la strada per casa. Per un centinaio di chilometri non abbiamo detto una parola. Ma a un certo punto ci ho provato.
“Come stai, Armen? Ti vedo pensieroso”.
“Niente, io stare sempre male, la vita essere male”.
“Magari puoi provare a vederla diversamente. A volte aiuta. Pensa alle cose belle, alla tua bella famiglia”.
“Che ne sai tu della vita?!”, mi risponde con astio, quasi minacciandomi.
“Provo a capirti, Armen”.
“Tu?! Tu vuoi capire me e la mia vita?! Io sono sopravvissuto a un terremoto. Ho perso tutto, ho visto i miei migliori amici morti. Sono rimasto con i miei cinque figli sulle macerie della mia casa e senza niente da mangiare. Abbiamo vissuto un anno dentro un container pieno di topi. Capisci???”, mi chiede guardandomi con i suoi occhi neri fumanti di rabbia.
“Volevo solo aiutarti”
“Tu a me??? Tu non sai niente di me!”.
Armen, io so che ti porti dentro un immenso dolore. Volevo alleggerirti per un momento, ma so che è quello che ti dà la forza di addomesticare un hooligan inglese ubriaco e trasformarlo in un agnellino, o di sfidare il boss della mala armena come se fosse un barista che ha sbagliato a servire la birra. So che pensi che il destino degli uomini sia questo, tirare fuori la forza per proteggere gli altri. E tu riesci ad essere più forte degli altri perché attingi da lì. Perdonami fratello Armen, se non vivo come te. Se penso che la libertà sia il bene più prezioso che abbiamo. E anche l’amore, che a noi due sicuramente manca, a ciascuno per un verso.
PS
Armen è uno che si è fatto dal niente. Anzi, che si è rifatto dal niente. Nel 1988 un terribile terremoto colpì l‘Armenia e devastò la città in cui era nato e viveva, Leninakan. Perse tutto. Allora prese la moglie e i suoi cinque figli e senza un soldo né uno straccio di documento se ne venne in Belgio, per rifarsi una vita e dare ai suoi figli un futuro migliore. Oggi i figli hanno tutti un buon impiego, sono perfettamente integrati e uno è diventato un architetto di successo. Potrebbe dire con orgoglio che ci è riuscito. Lui non lo fa mai, ma io so che da qualche parte dentro di sé questo pensiero lo rende forte e fiero.
Il capitolo 4, “La partenza”, sarà disponibile dal 5 aprile 2020 alle ore 8